sabato 5 dicembre 2009

B. CON LE SPALLE AL MURO

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 5 dicembre 2009

di Peter Gomez
(Giornalista)


“Sì, dagli anni Ottanta al 2000 ho fatto parte di un'associazione terroristico-mafiosa denominata Cosa Nostra”. Esordisce così Gaspare Spatuzza, il braccio destro del boss del Brancaccio, Giuseppe Graviano, mentre nella maxi-aula del palazzo di Giustizia di Torino, il silenzio sembra farsi di gelo. C’è gente dappertutto. Ci sono telecamere ovunque. Mai durante le centinaia di udienze - tra primo e secondo grado - del processo a Marcello Dell’Utri si è assistito a una cornice del genere. Nemmeno quando dietro il paravento, messo a protezione della figura dei pentiti, si sono seduti personaggi del calibro di Nino Giuffrè, l’ex capomafia di Caccamo, già uomo ombra di Bernardo Provenzano, che ben prima di Spatuzza aveva parlato di un accordo tra i vertici di Forza Italia, e Cosa Nostra.

Allora Giuffré raccontava come l’Ultimo Padrino, nel ‘94 avesse radunato tutti i boss per dire: “Loro sono persone serie. Di Dell’Utri ci possiamo fidare. Nel giro di dieci anni i problemi di Cosa Nostra saranno risolti”. Ma di anni ne sono passati 15 e anche se chi sta fuori può pensare di aver ottenuto dei risultati, quelli che sono in cella la galera continuano a mangiarsela. Certo, le supercarceri di Pianosa e l’Asinara sono state chiuse (dal centro-sinistra) e il 41 bis non è più quello di prima. Dopo che il carcere duro è stato “stabilizzato” per legge, più di 150 boss sono riusciti a farselo revocare. Persino qualche condannato per strage è finito in un regime di detenzione normale. Ma i Graviano, i Bagarella, i Riina , gli uomini dell’ala corleonese dura e pura, nelle loro celle singole, che i Graviano definiscono “una Guantanamo”, ci sono ancora.

Dieci morti, dozzine di feriti dalle autobombe, una stagione di lucida follia è forse bastata per scendere a patti con Dell’Utri e il suo capo, Silvio Berlusconi, ma non per avere partita vinta. In ogni caso un fatto è certo. Le stragi anche per Spatuzza, esattamente come avevano certificato le sentenze definitive delle inchieste fiorentine, avevano uno scopo di terrorismo ed eversione. Dovevano servire per stringere nuovi accordi con la politica. Ed è proprio di questo che Spatuzza sembra ansioso di parlare. Il procuratore generale Nino Gatto è fin troppo sbrigativo nell’affrontare la ricostruzione della parte iniziale della sua carriera criminale che già il pentito ripercorre, sul filo della memoria, l’incontro del novembre del ‘93 con Giuseppe Graviano a Campofelice di Roccella: “Io gli disse ci stiamo portando morti che non ci appartengono. A Firenze abbiamo ucciso anche una bambina di cinque mesi. Ma lui rispose: ‘Ti sbagli perchè così chi si deve deve smuovere si smuove. Avremo benefici a partire dai carcerati perchè c’è una cosa in piedi”. Per Spatuzza era il primo segnale che poi avrebbe portato all’ormai celebre faccia faccia al bar Donei di Roma, in cui Giuseppe, felice come una pasqua, gli avrebbe detto “Abbiamo il Paese nelle mani. Abbiamo fatto un accordo con Berlusconi e con il nostro compaesano Dell’Utri. Sono persone serie non come quei quattro crasti dei socialisti”. Parole pesanti, ma perfettamente in linea, con

le motivazioni della sentenza con cui il senatore azzurro era stato condannato a 9 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Solo che adesso c’è una novità. E non è piccola. Spatuzza che, per uno strano scherzo del destino, spiega di essersi convinto al pentimento (religioso) dopo una corrispondenza con Giuseppe Molinari, il vescovo dell’Aquila, considerato l’alto prelato più berlusconiano d’Italia, non è stato rinnegato da Cosa Nostra. La sua famiglia di sangue, a partire dalla moglie, non vuole più sapere niente di lui. I fratelli Graviano dicono invece di rispettarlo. E Spatuzza, a sorpresa, in aula spiega di volere ancora oggi loro bene: “Giuseppe per me è come un padre e io provo un sentimento profondo di affetto per lui, per suo fratello Filippo, per il loro padre Michele che è stato ucciso, per loro loro madre, la signora Quartataro, e per la sorella”. Insomma Spatuzza sembra aver avuto un via libera al pentimento. Per questo Dell’Utri dice di essere finito nel mirino non di un pentito di mafia, ma di un “pentito della mafia”. E i suoi difensori, che evitano accuratamente di fare domande sul merito delle sue accuse, si limitano a sottolineare che, secondo loro, Spatuzza ha parlato del presunto accordo con Berlusconi e Dell’Utri fuori tempo massimo. Il pentito però spiega di non averlo fatto inzialmente “per paura” (Berlusconi, dice, era appena stato nominato presidente del Consiglio) e aggiunge che in ogni caso non voleva accreditarsi affrontando subito il capitolo mafia e politica. “Entro i 180 giorni (stabiliti dalla legge)”, dice, “ho però seminato indizi (su Berlusconi e Dell’Utri) parlando della Standa e di cartelloni pubblicitari (una vicenda di affissioni seguita personalmente da Giuseppe Graviano ndr), ho lasciato aperto qualche cosa per portare a termine la mia missione, se così possiamo dire. Cioè la mia missione di restituire verità alla storia”. In aula torna insomma ad aleggiare lo spettro del grande ricatto contro il presidente del Consiglio: fai qualcosa o qui ci mettiamo tutti a parlare. Il problema è che i ricatti per funzionare devono essere basati sulla verità. E di chiavi di lettura e di vicende perfettamente compatibili con quanto emerso, non da dichiarazioni di collaboratori di giustizia, ma persino dai documenti, Spatuzza ne fornisce molte. A partire dal rapporto preferenziale del clan di Brancaccio con quello di Porta Nuova, all’epoca diretto dall’ex fattore di Arcore, Vittorio Mangano. Siamo nel ‘93 e Spatuzza va a Porta Nuova per cercare di dare una regolata a un gruppo di ladri che si muove al di fuori degli ordini della famiglia. Cose del genere si fanno solo se c’è un accordo ad alto livello. Cioè se Magano e i Graviano sono una cosa sola. Un bel problema per l’imputato Dell’Utri che proprio nel novembre del ‘93, come risulta dalle sue agende, incontra Mangano. Anzi riceve una telefonata così trascritta dalle segretarie “Mangano sarà a Milano verso il 30.11. Cinque giorni prima convoca con precisione”. Convoca appunto.

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