sabato 12 dicembre 2009

Dopo la guerra i petrolieri passano all’incasso

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 12 dicembre 2009

di Alessandro Cisilin
(Giornalista)


All’inizio si chiamava Oil, ovvero “petrolio”. Era il codice militare utilizzato il 24 marzo 2003 dal portavoce di Bush Ari Fleischer per illustrare la prossima occupazione irachena. L’acronimo stava per Operation Iraqi Liberation ma, per correggerne l’ambigua evocazione, Libération divenne presto Freedom. Che non si trattasse di un lapsus è oramai una verità storica. Non sono più necessarie le denunce di qualche dissidente americano, e nemmeno le inchieste della matrona delle emittenti pubbliche, la Bbc, per dimostrare come non c’entrassero nulla le presunte armi di distruzione di massa di Saddam né l’obiettivo illuministico di esportare la democrazia. Che si trattasse semplicemente di conquistare il più grande serbatoio energetico del mondo è un fatto ufficializzato già da un paio d’anni dagli stessi vertici di Washington, a cominciare dall’ex capo della Federal Reserve Greenspan. La spartizione petrolifera dell’Iraq fu progettata nel 2001 (prima dell’11 settembre). L’Italia fu coinvolta in ritardo ma ci arrivò, verso la fine del 2002, alla vigilia dell’iniziativa di Berlusconi di frantumare il no europeo alla guerra siglando l’asse con Blair e con la “Nuova Europa” dell’est glorificata da Rumsfeld. La novità di queste ore è che “finalmente” è giunto il momento dell’incasso. Tra ieri e oggi si celebra l’asta per assegnare alle multinazionali 10 contratti per lo sfruttamento di una quindicina di giacimenti da oltre 40 miliardi di barili, che corrispondono più o meno all’intera dotazione attuale di petrolio della Libia. “Finalmente”, perché sono passati 6 anni e mezzo, e a rallentare la dismissione industriale del paese sono ripetutamente intervenute le stragi delle bande di guerriglieri e terroristi di varie etnie e religioni. L’ultima solo martedì, con una catena di 5 bombe nel cuore di Baghdad che hanno fatto centotrenta morti e 450 feriti, rendendo quasi epica la decisione dei dirigenti delle quarantacinque compagnie “pre-selezionate” dal governo iracheno di affluire ugualmente all’asta. Il bersaglio, si diceva, è il processo elettorale ufficializzato poche ore prima per il 6 marzo prossimo. Ma il nodo, ancora una volta, non è solo la “democrazia”. A guardare con sospetto il nuovo parlamento non è solo qualche imam sciita legato ad al Qaeda o gli indefessi baathisti che rimpiangono Saddam. Sono le stesse multinazionali a temere che i nuovi contratti, sottoscritti in queste ore in un quadro di assoluto vuoto legislativo, possano essere invalidati con la velocità di un voto. A blindare le

operazioni è intervenuto allora lo stesso premier al Maliki, portando al ministero del Petrolio anche la televisione di Stato al-Iraqiya per ostentare ufficialità e trasparenza. I vincitori di ieri sono l’anglo-olandese Shell, la malese Petronas, la China National Petroleum, la francese Total. Tra gli sconfitti, l’italiana Eni, già in ritardo nelle trattative per Nassiriya nonostante i sacrifici della missione. A risultare curioso è anche il contenuto economico dell’asta. Non saranno le multinazionali a dover pagare qualcosa all’Iraq, ma l’Iraq a loro, con un ammontare fisso a barile in cambio di parte dei profitti. Una precedente asta si era conclusa il 30 giugno con un fallimento – un solo contratto per i pozzi di Bassora “liberati” dagli inglesi, quindi assegnati alla British Petroleum – perché i contractors si accordarono a bocciare come troppo basso tale ammontare. A pensarla in modo diametralmente opposto sono gli operatori locali, a cominciare dalle organizzazioni sindacali e da un paio di dirigenti governativi. L’esecutivo li ha prontamente licenziati, prima di migliorare ulteriormente le condizioni monetarie dell’asta. E se qualcuno prova a chiedere perché vengono cedute all’estero le enormi risorse del paese, la risposta, del governo e delle multinazionali, non fa una piega: le capacità industriali di estrazione dell’Iraq di oggi sono sensibilmente ridotte rispetto ai tempi di Saddam.

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