giovedì 10 dicembre 2009

Lettera a Maroni sulla mafia

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 10 dicembre 2009

di Gian Carlo Caselli
(Procuratore della Repubblica di Torino)


Gentile ministro Maroni: ho lavorato a Palermo, come procuratore, per quasi sette anni, dal 1993 al ’99. Anni difficili, densi di risultati importanti, che hanno consentito alla democrazia del nostro paese di non precipitare nel baratro senza fondo in cui lo stragismo terroristico-mafioso dei corleonesi volevaprecipitarci.Alconseguimento di tali risultati hanno contribuito in tanti, forze dell’ordine, magistrati, società civile, istituzioni e uomini politici. Fra questi un ruolo di primo piano l’ha avuto proprio Lei, come ministro degli Interni: per noi un riferimento sicuro, avendo più volte constatato la Sua disponibilità ad ascoltare prima di decidere.

È ricollegandomi a quel periodo – breve ma intenso: otto mesi nel 1994 – che mi permetto oggi di sottoporLe alcune questioni. Nella lotta alla mafia, si sa, tutto si tiene. Distrarsi su di un versante, se le cose vanno bene su altri, è un lusso non consentito. Lei giustamente sottolinea i successi delle forze dell’ordine nella ricerca e cattura dei latitanti. Al riguardo non si può non registrare una continuità – nel contrasto dell’ala militare di Cosa Nostra – che non si è mai avuta prima. È da dopo le stragi del ‘92 che gli arresti “eccellenti” si susseguono ininterrotti: con Riina, Bagarella, Brusca, Aglieri Graviano e un’infinità di altri nel primo periodo; e poi via via fino ad oggi con Provenzano, Lo Piccolo, Raccuglia, Nicchi... mentre ormai le catture si intensificano anche per camorra e ‘ndrangheta. Altrettanto giustamente Lei ricorda la stabilizzazione del 41-bis, cioè di un regime carcerario di giusto rigore nei confronti dei mafiosi detenuti che dovrebbe impedire loro di spadroneggiare anche stando in galera. E sempre giustamente Lei rivendica alcune misure antimafia contenute nel cosiddetto “pacchetto sicurezza”, forse solo aggiustamenti di un quadro già esistente – e tuttavia aggiustamenti significativi.

Ma poste tali positività, vorrei – signor ministro – parlare anche delle ombre che rischiano di rendere l’azione antimafia disomogenea, non coerente su tutti i versanti interessati. Il primo punto riguarda la possibilità, fortemente voluta dalla maggioranza di governo, di vendere i beni confiscati ai mafiosi . Le cautele previste mi sembrano, obiettivamente, foglie di fico. In realtà dubbi non ve ne possono essere. Quei beni, saranno i mafiosi a ricomprarseli tutti, facendone un sol boccone: perché godono di una liquidità che nessun altro operatore economico si può sognare, perché possono utilizzare un esercito di insospettabili prestanome, e perché se qualcuno osasse mettersi di traverso partecipando all’asta o trattativa i mafiosi saprebbero bene come convincerlo a desistere. Mentre subisce duri colpi in termini di arresti, ecco che la mafia trova una sorta di rianimazionesulversantedelsuopotere economico. Il vecchio detto “calati iuncu ca passa ‘a china…” sarebbe ancora una volta confermato: le organizzazioni criminali risulterebbero sostanzialmente in recupero, con un forte danno per la credibilità dell’antimafia complessivamente considerata, in netta controtendenza con i successi degli arresti. Anche col recupero di un solo bene confiscato l’arroganza mafiosa potrebbe cantare vittoria, rivendicando – ancora una volta – la sua supremazia. Per non dire della diminuzione verticale che potrebbero registrare le destinazioni a finalità sociali dei beni confiscati. Con conseguente sterilizzazione dello straordinario valore che tali destinazioni hanno sul piano del coinvolgimento della società civile nella lotta alla mafia. Restituire alla collettività ciò che il crimine organizzato le ha rapinato significa fare dei sudditi della mafia dei cittadini alleati dello Stato. Un valore aggiunto delle confische che forse interessa relativamente al ministro dell’Economia Tremonti, ma che non può non stare fortemente a cuore di chi come Lei – ministro Maroni – della lotta alla mafia è istituzionalmente il principale responsabile. La proposta di un’Agenzia nazionale, infine, va nel senso (positivo) che da anni e anni è auspicato da tanti. Ma ipotizzarla mentre viene “codificata” lapossibilitàdivendereibeniconfiscati, equivale un po’ – io credo – a governare la stalla dopo aver dato il largo ai buoi.

Un altro punto caldo riguarda la riforma delle intercettazioni, che – nel progetto già approvato dalla Camera – sarebbero di fatto impedite o quasi per tutti i reati che non siano fin da subito riconducibiliallamafia.Matraquesti,lo dimostra l’esperienza, rientra anche tutta una serie di gravi delitti (estorsioni, usura, bancarotta, corruzione, aste o appalti truccati, frodi, falsi…) che sono tipici delle mafia “economica”, per di-svelare la quale però occorrono approfondite indagini che delle intercettazioninonpossonofarea meno. In sostanza, con la riforma si finirebbe – di fatto – per offrire una specie di “scudo” che sarebbe assolutamente controproducente nella lotta alla mafia, una mafia che sempre più – come Lei, signor ministro, sa perfettamente – da impresa criminale va evolvendo proprio in impresa economica. Poi c’è la grave questione delle procure di frontiera che ormai sono letteralmente sguarnite. I posti scoperti per la mancanza di pm, in Sicilia come in Calabria (ma non solo), sono ormai decine e decine. Ora, se polizia e Cc arrestano fior di latitanti ma poi non ci sono i pm per fare le indagini, si rischia la schizofrenia. E sono sicuro che Lei, signor ministro, questo non lo vuole. Si faccia allora promotore di soluzioni che pongano rimedio a una situazione insostenibile, che porterà alla catastrofe prima di tutto proprio sul versante antimafia. Per esempio consentendo di impiegare nelle procure – come in passato – i magistrati di prima nomina, prevedendo nel contempo un corso “specialissimo” di formazione, di congrua durata, mirato sulle specifiche funzioni da assolvere.

Ci sarebbero, signor ministro, tante altre cose da dire. Mi limito a una soltanto, non per facile polemica, ma perché – anche in questo caso – tutto si tiene. Mi chiedo: che effetto può avere (sui poliziotti che rischiano la pelle per arrestare pericolosi criminali) sentire che da uomini con incarichi pubblici importanti un tizio come Mangano viene ostinatamente definito “eroe”? Eroi sono i poliziotti, non i mafiosi che essi assicurano alla giustizia. Controbattere queste “allegre” definizioni – mi creda – non può che far bene all’antimafia e al morale delle forze dell’ordine.

RingraziandoLa per l’attenzione, Le auguro buon lavoro.

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