sabato 30 gennaio 2010

DON AGOSTINO CHE SPOSÒ IL CAPO DI COSA NOSTRA

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 gennaio 2010

di Isaia Sales
(Scrittore)


Don Agostino Coppola è il prete che il 16 aprile 1974 nei giardini di Cinisi sposa Totò Riina (allora latitante) con Ninetta Bagarella. Insieme con lui altri due preti, don Mario e don Rosario. È parroco di Carini e viene ammesso nelle fila (combinato) di Cosa Nostra a Ramacca nel 1969. Ne parla il collaboratore di giustizia Antonino Calderone: “Mentre eravamo a cena arrivò un prete. Ci fu presentato come un uomo d’onore della famiglia di Partinico. Agostino Coppola si chiamava. Quello che riscosse i soldi del sequestro Cassina. Con mio fratello abbiamo scherzato durante il viaggio di ritorno su questo prete che faceva parte della mafia. ‘Gesù Gesù, anche un parrino in Cosa Nostra’”.

Don Agostino è legatissimo a Luciano Liggio ed è nipote di un capo di Cosa Nostra americana, Frank Coppola detto Tre dita. Amministra i beni della diocesi di Monreale (la più chiacchierata della Sicilia) e fa da mediatore nei sequestri di persona fatti dai Corleonesi (quello di Luciano Cassina, di Luigi Rossi di Montelera e dell’industriale Emilio Baroni). Nel 1974 viene arrestato, e nella sua abitazione gli inquirenti trovano cinque milioni provenienti dal riscatto di un sequestro di persona. Nel 1976 don Agostino viene processato, insieme con Luciano Liggio, per il sequestro di Luigi Rossi di Montelera e condannato a quattordici anni di galera.

Nel marzo del 1977 riceve una seconda condanna, questa volta per estorsione (derubricata poi in appello in lesioni personali aggravate) ai danni di un allevatore. Nel luglio dello stesso anno compare come imputato nel processo per il sequestro di Luciano Cassina, figlio di un noto appaltatore di lavori pubblici di Palermo, ma viene assolto per insufficienza di prove, grazie anche all’intervento del vescovo di Monreale. Monsignor Corrado Mingo invia, infatti, una lettera alla Corte pochi giorni prima del processo in cui dichiara di aver richiesto lui stesso l’intervento del prete in qualità di mediatore. Dunque, il vescovo sapeva dei legami di don Agostino Coppola con ambienti criminali. Il colonnello Russo, ucciso poi a Ficuzza nel 1977, era convinto che don Agostino avesse nascosto Luciano Liggio latitante a Piano Zucco, zona in gran parte controllata dal prete di Carini e dai suoi fratelli Giacomo e Domenico. Quando Liggio si trasferisce in Calabria per un contrasto con gli altri capi della mafia contrari ai sequestri di persona che il corleonese e la sua banda praticavano in Sicilia, don Agostino Coppola lo raggiunge immediatamente.

Per mimetizzare i veri motivi della sua missione, il prete si fa accompagnare da una ragazza che interrogata disse di essersi innamorata del sacerdote ma di non essere riuscita a conquistare il suo amore. Tra il 1971 e il 1973, periodo di permanenza di Liggio latitante nel palermitano, padre Agostino Coppola acquistò beni per 49 miliardi di lire. Un po’ troppi per chi ha fatto voto di povertà. All’inizio degli anni Ottanta viene sospeso finalmente dal Vaticano e si sposa con una donna della famiglia Caruana di Siculiana, famosa famiglia di trafficanti di droga tra la Sicilia, il Canada e il Venezuela. Morì mentre era agli arresti domiciliari. Sempre a proposito della famiglia Coppola, va ricordato che lo zio, Frank Tre dita, quando fu rispedito in Italia dall’America perché indesiderato , fu ricevuto alla stazione con la banda dal parroco di Partinico don Leonardo La Rocca.

FRA’ GIACINTO

Frate Giacinto, al secolo Stefano Castronovo, nato nel 1919 a Fa-vara, provincia di Agrigento, fu ucciso il 6 settembre 1980 con cinque colpi al capo da due persone nella sua cella al primo piano del monastero di Santa Maria del Gesù a Palermo. Già nel 1964 la polizia si era interessata a lui. Il commissariato di Corleone aveva perquisito il convento e la cella in cui viveva Fra’ Giacinto alla ricerca del latitante Luciano Liggio. Una “soffiata” aveva indicato in Fra’ Giacinto il suo protettore. A Santa Maria del Gesù si era sistemato splendidamente: viveva in un appartamento di sette stanze. Nella perquisizione, dopo il suo assassinio, fu trovata una rivoltella calibro 38 in un cassetto della scrivania e quattro milioni di lire in contanti, inoltre profumi e liquori e abiti civili di ottima fattura. Don Giacinto era amico dei mafiosi. Oltre a Luciano Liggio, annoverava tra le sue frequentazioni anche la famiglia Bontate, di cui era diventato il confessore. Le indagini sull’uccisione le svolse il vicequestore Antonino Cassarà, assassinato qualche anno dopo. Cassarà restò fortemente impressionato dall’omertà dei suoi confratelli. Le poche cose che venne a sapere riguardavano la sua non partecipazione alla vita religiosa del convento; riceveva solo gente che gli chiedeva favori e faceva raccomandazioni, i doni che gli portavano non li condivideva con gli altri frati. Nessuno dei suoi superiori aveva avuto da ridire su questi suoi comportamenti fuori dalle regole e dalle tradizioni dell’ordine francescano. Nessuno dei suoi confratelli aveva segnalato l’anomalia del suo modo di vivere. Nel 1961 Fra’ Giacinto aveva acquistato una pistola, una Walther 7,65. Il frate era chiacchierato da lungo tempo, e nessuno a Palermo si meravigliò della sua fine. Pare che praticasse perfino il prestito di denaro a usura, ma “furono le sue amicizie strettamente mafiose a farne decidere l’omicidio”. Quando l’anno dopo la sua uccisione fu sterminato l’intero clan dei Bontate, si capì meglio la ragione della sua eliminazione: si era trattato di un messaggio mandato alla famiglia di cui era il padre spirituale.

Voci insistenti dicevano che nel cimitero del convento fossero sepolti alcuni “scomparsi” di quegli ultimi anni e che, nelle tombe vuote, si fossero nascosti alcuni mafiosi latitanti. Anche Gianni Baget Bozzo in un articolo ventilava l’ipotesi che Fra’ Giacinto non rappresentasse un’eccezione all’interno dell’ordine e della Chiesa siciliana.

Nella omelia al suo funerale il provinciale dell’ordine francescano, padre Timoteo, richiamò la massima evangelica “Chi è senza peccati scagli la prima pietra”. Dire una frase del genere davanti a un assassinato, “vuol dire ammetterne le colpe o assolverle”.

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