venerdì 4 dicembre 2009

Il Processo di rottura e Letta

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 4 dicembre 2009

di Gian Carlo Caselli
(Procuratore della Repubblica di Torino)


L’evoluzione della specie può riguardare anche il cosiddetto “processo di rottura”. Enrico Letta forse non l’ha avvertito, ma un nuovo capitolo di questa evoluzione lo ha scritto proprio lui, dichiarando al Corriere della Sera del 30 novembre 2009 di considerare “legittimo che, come ogni imputato, Berlusconi si difenda nel processo e dal processo”. Tesi strabiliante, perché equivale – se le parole hanno un senso – ad un’impropria riedizione del cosiddetto “processo di rottura”.

Nella storia il “processo di rottura” è sempre stato praticato dall’opposizione radicale, per amplificare una contrapposizione frontale allo Stato e alle sue istituzioni, con manifestazioni fra loro assai differenti e scarsamente comparabili: da quelle di Rosa Luxemburg e della Resistenza algerina, a quelle delle Pantere Nere negli Stati Uniti o delle Brigate rosse in Italia.

Una variante assolutamente innovativa (un’evoluzione) del “processo di rottura” si è poi registrata in Italia negli ultimi quindici anni. Si tratta di un’anomalia che il nostro paese ha in esclusiva, consistente nel ricorso al “processo di rottura” ad opera di “pezzi” di Stato anziché sue antitesi. Vanno univocamente in questa direzione il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro (per contestarne in radice la legittimità, condizionarne lo svolgimento e svalutarne l’esito) da parte di inquisiti eccellenti o di soggetti comunque forti. Nuovi e vecchi potenti hanno ingaggiato un’incessante battaglia contro la magistratura, addirittura indicata come responsabile di un golpe, con possibili seguiti di guerra civile e altre catastrofi.

E ora ecco, Enrico Letta che usa la legittimazione della difesa “dal” processo (alias del “processo di rottura”: determinandone una nuova evoluzione…) come strumento per accreditare l’opposizione agli occhi della maggioranza politica contingente e per avviare un tavolo di riforme comuni anche in tema di giustizia. Obiettivo che una forza politica può contemplare nel suo programma. Ma attenzione ai percorsi. Legittimare tale difesa, infatti, significa disco-starsi dal garantismo “classico”, che è veicolo di eguaglianza e non può mai essere strumento di sopraffazione e privilegio. Significa, al contrario, aprire spazi a un “neogarantismo strumentale”, diretto a depotenziare la magistratura (che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico). Oppure a un “neogarantismo selettivo”, che di fatto gradua le regole in base allo status sociale dell’imputato. Tutte opzioni che rischiano di appannare la democrazia, non collimando con un sistema di stretta legalità.

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