giovedì 14 gennaio 2010

Minority Riport

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 14 gennaio 2010

di Marco Travaglio
(Giornalista)


Un anno fa, nel 15° anniversario della discesa in campo del Cavaliere, l’inventore di Forza Italia Marcello Dell’Utri confidò al Corriere, rievocando i giorni ruggenti delle origini: “Sinceramente, se mi avessero detto dove sarebbero arrivati Schifani e Tajani, non ci avrei creduto. Ma è vero che la carica fa l’uomo, se l’uomo non è fesso”. Grande conoscitore della Sicilia, Dell’Utri ne aveva sempre frequentato il meglio: Mangano, Cinà, Virga, Calderone, Jimmy Fauci, e – secondo il Tribunale di Palermo pure Bontate, Teresi e Di Carlo – e – secondo Ciancimino jr. – anche Bernardo Provenzano. Si spiega così lo stupore di Dell’Utri dinanzi alla resistibile ascesa alla presidenza del Senato, cioè alla seconda carica dello Stato, di uno Schifani qualsiasi: un ex avvocaticchio di terza fila che l’ex ministro forzista Filippo Mancuso, pure lui siciliano, immortalò come “il principe del foro del recupero crediti”. Ora lo stupore dev’essersi tramutato in invidia inestinguibile alla lettura degli ultimi verbali di Massimo Ciancimino sulle mansioni a cui era adibito Renatino agl’inizi della sua carriera. “Quando accompagnavo mio padre – ha raccontato ai pm il figlio di don Vito – dall’onorevole Lima, spesso rimanevo fuori in macchina e c’era Schifani che faceva l’autista al senatore La Loggia (l’ex presidente Dc della Regione, padre dell’attuale deputato forzista, ndr) e Cuffaro che guidava la macchina a Mannino. I tre autisti eravamo questi... andavamo a prendere le cose al bar per passare il tempo... Ovviamente loro due, Cuffaro e Schifani, hanno fatto altre carriere: c’è chi è più fortunato nella vita e chi meno... Ma tutti e tre una volta eravamo autisti”. Ecco, pare di vederli, Massimo, Totò e Renatino in gessato grigio a righine e RayBan neri, poggiati alle ammiraglie scure che si raccontano barzellette, fumano una sigaretta via l’altra e ammazzano il tempo con un caffè al bar e due tiri al biliardo, mentre i loro padroni, tutti splendidamente ammanigliati con la mafia, tenevano i loro summit ai piani superiori per decidere come saccheggiare Palermo, pilotare appalti, creare strane società. Come la Sicula Broker, in cui erano soci La Loggia il Vecchio, D’Agostino, Mandalà e Schifani. Poi D’Agostino finì in galera e fu condannato per cose di mafia; Mandalà finì in galera e fu condannato come boss della cosca di Villabate; La Loggia il Giovane finì in Parlamento; Schifani, il più fortunato dei quattro, si tagliò il riporto e finì alla presidenza del Senato. Ora magari qualcuno, sulla scia di Dell’Utri, potrebbe ironizzare sull’ex autista paracadutato sulla poltrona più alta di Palazzo Madama. Ma si tratterebbe di razzismo. La storia del piccolo driver che, passettino dopo passettino, si arrampica sulle istituzioni è degna di un film di Frank Capra sul Sogno Americano. Altro che Jimmy Carter, partito commerciante di noccioline e arrivato alla Casa Bianca. Altro che Barack Obama, il figlio di un kenyano approdato anche lui alla stanza ovale. Il vero Sogno Americano è quello di Schifani, da autista a vicepresidente della Repubblica. E poi dicono che in Italia non c’è mobilità sociale. Resta da capire perché la seconda carica abbia sempre tenuto nascoste le sue rombanti origini, lasciando che fosse il figlio di Ciancimino a rivelarle, e soltanto ora. La sua storia struggente potrebbe ispirare una pellicola di Rai Fiction, magari affidata al grande regista Renzo Martinelli che, reduce dai trionfi del Barbarossa e del Sangue dei vinti, potrebbe immortalare il nuovo Sogno Italiano rovesciando la trama di Taxi Driver, con il nostro autista che, anziché tentare di uccidere un senatore, diventa egli stesso senatore e poi presidente del Senato. Un film da proiettare nelle scuole, ma soprattutto nelle autoscuole, per rincuorare gli allievi un po’ tonti. Ragazzi, non disperate: se ce l’ha fatta lui, c’è speranza per tutti.

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