martedì 5 gennaio 2010

QUI A REGGIO NON SI AGGIUSTANO PIÙ I PROCESSI IN APPELLO

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 5 gennaio 2010

di Enrico Fierro
(Giornalista)


“Qualcuno si era illuso che tenessimo un profilo basso, cosa sbagliata. Perché noi non ci arrendiamo mai”. Salvatore Di Landro, procuratore generale di Reggio Calabria, conosce bene la sua città, la 'ndrangheta e il sistema affaristico che domina lo Stretto. Quei dieci chili di tritolo che solo per un caso non hanno devastato la palazzina di via Cimino, nel centro storico, sono un segnale preciso. Contro l'attivismo della procura generale e la fine di un andazzo che recitava più o meno così: in Appello si aggiusta tutto. “L'ufficio funziona e questo disturba le cosche”, ricorda un magistrato dell'antimafia. “C'erano tempi in cui le avocazioni delle inchieste erano dirette contro i pubblici ministeri più esposti, e capitava spesso che i ricorsi per Cassazione non venivano presentati nei tempi giusti”.

Le antiche protezioni ora sono finite, i patteggiamenti e le scandalose riduzioni di pena a boss importanti pure. Quegli sconti che il 26 aprile 2001 indussero un gruppo di magistrati dell'antimafia reggina a sottoscrivere un documento di protesta contro la procura generale. Firme di pm che hanno fatto la storia dell'antimafia in Calabria, come Salvatore Boemi, Nicola Gratteri, Alberto Cisterna, Roberto Pennisi, Franco Mollace, Roberto Verzera e Vincenzo D'Onofrio. Avevano portato a conclusione un processo importante contro i clan dell'area di Gioia Tauro, il processo Porto, con la condanna dei capi delle famiglie Pesce-Bellocco e Piromalli, che fu letteralmente demolito in appello con scandalose riduzioni di pena. Giuseppe Piromalli, uno dei capi della famiglia di Gioia Tauro, ottenne la rriduzione della pena da 21 anni a 11, suo nipote, l'avvocato Gioacchino, da 11 a 4 anni e 6 mesi. “Non è possibile che si arrivi a tale tipo di patteggiamento”, scrissero i pm contestando la decisione del sostituto procuratore generale Francesco Neri. “I criminali – è la riflessione del procuratore Di Landro – sono portati a credere che nel processo di appello le cose si sistemano, quando questo non avviene, quando anche qui si rendono conto che i processi vengono trattati con pari impegno, qualcuno reagisce”.

Raramente la 'ndrangheta

sceglie di scontrarsi frontalmente con lo Stato. “Se lo hanno deciso e fatto – dice Vincenzo Macrì, procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia – è perché ormai per loro la situazione è insostenibile. La 'ndrangheta non fa battaglie ideologiche, quando decide di colpire lo fa per lanciare segnali precisi”. Gli investigatori non si pronunciano, ma negli uffici giudiziari di Reggio qualcuno consiglia di rileggere alcuni episodi sottovalutati. Quello dell'attentato subito dal magistrato di Corte d'Appello Vincenzo Pedone il 21 agosto 2004. Un killer sparò con un fucile di precisione contro una finestra della sua abitazione. Il giudice si era opposto per ben due volte alla richiesta di accordo tra gli avvocati difensori di alcuni mafiosi e la procura generale. Il proiettile di grosso calibro sfondò la finestra e penetrò nell'appartamento bucando l'arazzo che ornava una parete. E vanno anche riprese le indagini su un altro episodio inquietante accaduto qualche anno fa negli uffici della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, quando la scorta del pm Nicola Gratteri scoprì alcune microspie piazzate in una stanzetta che il magistrato usava per gli interrogatori. Gratteri, impegnatissimo sul fronte della lotta al narcotraffico internazionale, è stato il pm che più di tutti, anche scontando un forte isolamento, si è battuto contro il patteggiamento in Appello per gli imputati di mafia. Alla fine ha vinto la sua battaglia, quando nel primo pacchetto sicurezzza del governo, la norma – già proposta da Giuliano Amato – è stata approvata.

Una bomba che “parla” a una Corte d'Appello che ha sul tavolo delicatissimi processi di mafia. Quello contro killer e mandanti dell'omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale Francesco Fortugno, quello sui fiancheggiatori dei boss Pasquale Condello ('o supremu) e Francesco De Stefano, il processo sulla faida di San Luca e la strage di Duisburg, e quello sugli affari delle cosche di Rizziconi. Altri processi importanti, come quello a carico dell'ex poliziotto Francesco Chiefari, si sono chiusi grazie al ruolo attivo della procura generale. Chiefari venne condannato a 13 anni per le bombe piazzate all'ospedale di Locri e Siderno (dove lavoravano la moglie e il fratello di Fortugno). In Appello la pena è stata leggermente ridotta ma la Corte ha deciso di aggiungere l'aggravante mafiosa. Intervento anche sul processo, concluso in primo grado con quattro ergastoli, per l'omicidio del vigilantes Luigi Rende, con la decisione del procuratore generale Di Landro di sostituire il sostituto Francesco Neri con l'avvvocato generale dello Stato Francesco Scuderi. Chi ha dato l'ok per l'attentato? Investigatori e magistrati non hanno dubbi: le cosche più influenti del Reggino. Quelle della città e della Piana di Gioia Tauro, le più potenti tra le 73 'ndrine che controllano il territorio della Provincia. “Che ci possa essere una nuova strategia della 'ndrangheta è una ipotesi da approfondire”, dice Franco Gratteri, direttore del Dipartimento centrale anticrimine . Ma è solo mafia? Probabilmente no, perché a Reggio la 'ndrnagheta da sempre è un intreccio di affari e politica. E proprio dalla Procura generale è partito un monitoraggio su alcune inchieste che parlano dell'intreccio tra interessi mafiosi e settori della politica e delle istituzioni, incredibilmente ferme. Anche di questo parla la bomba di Reggio.

Nessun commento:

Posta un commento