venerdì 15 gennaio 2010

UNO, NESSUNO E MINZOLINI

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 15 gennaio 2010

di Luca Telese
(Giornalista)


“Sì. Occupiamo la scuolaaa!. Ma il pallone, chi lo porta?”. C’era una volta un altro Augusto Minzolini, quello che irrompeva nella scena di Ecce bombo (1978) recitando se stesso. La cosa interessante è capire quale parentela unisca il “Minzo” gruppettaro degli anni Settanta, caratterista fisso delle cosmogonìe morettiane, e quello attuale, distillatore di editoriali ultra-berlusconiani sul Tg1 (come ieri su Craxi). Al contrario di quello che dicono molti, Minzolini fa bene a dire quello che pensa. Così la funzione del direttore “istituzionale” che intona le sue notizie a Palazzo Chigi diventa trasparente, e non occulta, come per i suoi predecessori. Il cane lupo di Bettini. Ma ovviamente, questo coraggio di testimoniare un punto di vista di parte, poco si lega ad una storia personale e un’auto-rappresentazione in cui l’ex retroscenista principe di Montecitorio si dipingeva sempre come una sorta di moschettiere anti-sistema. “Sono in pace con me stesso – rispondeva secondo, Paola di Caro del Corriere della Sera, a chi gli chiedeva se non gli pesasse l’accusa di berlusconiano – per me parlano trent’anni di carriera”. Se è così, esistono almeno due Minzolini (e forse molti di più). Il primo muove i suoi primissimi passi nella Fgci di viale Mazzini. A raccontare questa adolescenza a sinistracisonoduelibri.Ilprimo, Più colla compagni (Memori) riferiva di una sua espulsione dall’organizzazione per “frazionismo”. Il secondo, Il Piccolo principe (Sperling & Kupfer) entrava nei dettagli , ricostruendo un retroscena curioso: a ordinare l’espulsione era stato Walter Veltroni, a eseguire la sentenza il futuro attore, Giulio Scarpati. Alla presentazione del libro, un Minzo (non ancora direttore) produsse una testimonianza esilarante spiegando a uno degli autori, Marco Damilano: “Mah, a dire il vero... se dietro ci fosse Veltroni non lo so. Mi fecero un processo sovietico, ma so che a chiedere la mia testa fu Goffredo Bettini. Per far capire bene, mentre parlavo, entrò con un cane lupo. Mi ammutolii”.

Da D’Artagnan a Bel Ami. Così si passa dal Minzo-figgiciotto a quello gruppettaro. In un altro film di Moretti, Io sono un autarchico, è uno spettatore che esplode di rabbia dopo un terrificante spettacolo situazionista: “Ma vaff...”. Lo hanno messo su You-Tube, ieri, con questo titolo: “Quando aveva ancora il coraggio di ribellarsi” (scherzi del repertorio). Il nuovo Minzolini entra giovanissimo nel Palazzo, come un Bel Ami di Maupassant. Simpatico, pochi capelli, un naso da faina coronato da due baffetti belle epoque. È nipote di Filippo Troja , il più fidato scudiero di Guido Bodrato. Lo zio gli spiega per primo le geometrie segrete del Transatlantico, ma il vero maestro è Guido Quaranta, detto “lo squalo”, il più temuto dei cronisti. La coppia nasce, e funziona benissimo, lavorando sul confine sottile fra informalità e ufficialità. Bloccano il deputato-vittima, iniziano a chiacchierare e dare di gomito (“Quel porco di Craxi...”). Sembra il gioco delle tre carte: appena l’interessato si sbottona, i suoi mugugni finiscono in pagina. Quaranta e Minzo diventano così affiatati che qualcuno affibbia ad Augusto il nomignolo di “39”. Racconta Quaranta: “Una volta scoprimmo che in una sala di Montecitorio c’era un vertice segreto Dc. Mettemmo dei camici bianchi, entrammo fingendo di essere inservienti che dovevano pulire i mobili. Dopo un po’ ci cacciarono urlando...”. Minzo non guarda in faccia a nessuno: “Per me i politici sono dei matti dentro una stanza chiusa. Il mio lavoro è mettere l’occhio nella serratura e raccontare ai lettori quello che accade dentro”. A via del Corso scopre che da un bagno si sentono le riunioni del Psi (e ascolta). A piazza del Gesù si traveste da fattorino per intercettare una lettera per De Mita. Fioccano smentite, ingiurie, minacce di querela, ma intanto arriva il successo.

Il caso Violante. Nel 1994, a due giorni dal voto, esce una sua esplosiva intervista a Luciano Violante. Il tono è confidenziale: “La verità è che Dell’Utri è iscritto sul registro degli indagati della Procura di Catania non a Caltanissetta. E non si tratta di pentiti questa volta. C’è un pm – dice Violante – che conduce un’indagine di mafia su traffico d’armi e stupefacenti su Dell’Utri”. È un terremoto, Violante si deve dimettere dall’Antimafia. Qualcuno scrive che l’intervista pesa sul risultato elettorale. L’ex pm fa causa. Gli strascichi durano fino al 1996. Poi Violante ritira la querela , e La Stampa pubblica una precisazione concordata: “L’articolo, nella parte in cui attribuisce a Violante dichiarazioni su Dell’Utri, fu frutto di impressioni soggettive determinate da malinteso all’interno di una conversazione su altro soggetto”. Minzolini si è arreso? Repubblica lo scrive, lui si imbufalisce: “Io non ho smentito, ripeto, non ho smentito quell’articolo, anzi sarei pronto a riscriverlo”. Il Tg5 di Mentana gli propone un ruolo da commentatore. Su Panorama Minzo conquista una rubrica fissa. La Stampa lo manda in America a seguire le primarie, regalandogli il viatico dei grandi direttori. Ma le corrispondenze non lasciano il segno. Minzolini funziona solo nel Palazzo. Torna. La voce “minzolinismo”, entra negli Annali del lessico contemporaneo italiano del 1996. La definizione, però non è lusinghiera “Giornalismo che si basa sulla raccolta di dichiarazioni anche informali di uomini politici , senza alcuna verifica delle informazioni raccolte”. Dicono che Minzo abbia un debole per il leader “forti”. È vero. Stringe un rapporto stretto con il Craxi di Hammamet e persino una storia d’amore-odio con D’Alema: “Petrolini, Pasolini, come si chiama...?”, dice di lui il leader del Pds. Ma un giorno confessa a Barbara Palombelli: “Ebbene sì, mi manca Minzolini!”. Con Achille Occhetto invece è fuoco e fiamme. Minzo e Maria Teresa Meli (all’epoca a Il Giorno) lo mettono in mezzo in aereo, al ritorno da un vertice europeo. Piena Tangentopoli, Occhetto: “Se mi mandano un avviso di garanzia sarebbe un golpe”. La frase suscita un putiferio. Il segretario dei Ds smentisce. Si finisce davanti all’ordine, perché Nuccio Ciconte (de l’Unità) e Fabio Mussi smentiscono i due. Durante l’interrogatorio Ciconte rivela: “Ho registrato”: Risulta che la frase l’ha detta Minzo, Occhetto ha convenuto. L’ordine archivia, il minzolinismo continua a furoreggiare. Fedele Confalonieri rivela: “Lo volevo vicedirettore del Tg5”. D’Alema, ne La grande occasione racconta la sera del patto della crostata a casa Letta: “Minzolini mi seguì in motorino”. Collaterale. Ma il Minzo che torna dall’America è cambiato. Via i baffetti: fisico palestrato, un ruolo diverso. Non più l’uomo che rivela la stanza chiusa, ma il giornalista che dice (nel retroscena) ciò che il politico vuol far sapere ma non può dire (in scena). A Minzolini piace Berlusconi: “”Se c’è un leader che sa calibrare le mosse, è lui”, scrive il 20 marzo 2008. E conclude: “Su una cosa è imbattibile: sa pesare meglio degli altri i voti”. Lo squalo non morde più: interpreta. Si fa pesce pilota. Il suo maestro, Quaranta, non è mai diventato direttore. Lui è in pista per il Giornale, e approda al Tg1. Un giorno D’Alema denuncia un servizio su Berlusconi a Cipro con immagini di repertorio: “E’ sovietico”. Minzo ribatte: “Ha le traveggole”. Ma nel suo Tg1 dice cose come: “La maggioranza è tesa a cercare soluzioni che consentano al governo di lavorare con tranquillità”. Il giornalismo che gli Squali disprezzano.

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