mercoledì 6 gennaio 2010

Brunetta docet

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 6 gennaio 2010

di Gian Carlo Caselli
(Procuratore della Repubblica di Torino)


La ruvida schiettezza del ministro Brunetta offre anche un profilo non negativo: la mancanza di scarto fra pensiero reale ed esternazioni. La formuletta del “processo breve”, per nascondere la mannaia che farà strage di una moltitudine di processi innocenti, non l’ha certo inventata lui. Se una legge è “ad personam”, equilibrismi e sofismi per sollevare cortine fumogene su presunti interessi generali non gli appartengono. Gli oppositori devono “morire ammazzati”, altro che filosofeggiare di amore e derivati. I magistrati sono fannulloni da sistemare con tornelli e manager nei tribunali; vale a dire che i problemi della giustizia vanno affrontati con burbanzoso piglio aziendalistico, e poco importa se una simile improvvida impostazione rischia di sacrificare il ruolo tipico della giurisdizione (imprescindibile fattore di equilibrio del sistema istituzionale): che è ricerca della verità e non solo dell’efficienza; rispetto di codici, regole e procedure nel contraddittorio fra le parti; garanzia dei diritti dei cittadini e tutela della civile convivenza; difesa dell’uguaglianza delle persone, non come semplice aspirazione ma come dato normativo fondamentale; controllo di legalità a 360°... Ma il punto – nelle parole del ministro – resta la corrispondenza di esse col sincero sentire. Pane al pane… senza melassa o giri di parole. Così, con le carte “giuste” sul tavolo, il confronto può essere più franco.

Sostiene il ministro Brunetta che la Costituzione va cambiata non solo nella seconda, ma anche nella prima parte, a cominciare dall’art. 1, perché “Repubblica fondata sul lavoro” è un’espressione che non significa assolutamente nulla. Se per un attimo si potesse dimenticare il dramma del lavoro che con scandalosa continuità si trasforma in un pericolo per la sicurezza, la salute, la vita stessa dei lavoratori , alla tesi del ministro si potrebbe rispondere utilizzando argomenti a metà fra l’ironia e il paradosso. Viviamo purtroppo una lunga stagione di crisi economica, di inoccupazione e disoccupazione crescenti. E il lavoro spesso manca. Quando c’è, è sempre più frequentemente precario o nero o sommerso. Per cui, contestare che a fondamento della Repubblica ci sia proprio il lavoro può risultare – in questi tempi di magra – suggestivo e in qualche modo consolatorio. Esorcizzata la parola, eliminato il problema. Semplice, no? Ma l’art. 1 della Costituzione democratica non si esaurisce con le parole sul lavoro. C’è una seconda parte, che stabilisce : “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Toccare l’art. 1 comporta – inevitabilmente – modificare anche questo principio. Ed è una prospettiva che cancella ogni voglia di ragionare per paradossi.

Il primato della politica – in democrazia – è fuori discussione. Nel senso che governo della società e motore del “vivere giusto” appartengono alla politica e a nessun altro. Ma il primato della politica non è assoluto, proprio perché la sovranità deve esercitarsi nelle forme e nei limiti della Costituzione. Con questa previsione di limiti l’art. 1 sintetizza la necessità – presente in ogni potere davvero democratico – di una sfera “non decidibile” (quella della dignità e dei diritti di TUTTI), sottratta al potere della maggioranza e presidiata da custodi estranei al processo elettorale, ma non alla democrazia. E’ il sistema del bilanciamento dei poteri fortemente richiamato dal presidente Napolitano a Capodanno. Un sistema proprio di ogni democrazia moderna, in assenza del quale la “tirannide della maggioranza” è sempre in agguato, (lo scriveva già Alexis de Toqueville). In altri termini, le democrazie costituzionali sono caratterizzate da un forte policentrismo, nel senso che oltre ai segmenti classici della politica (partiti, Parlamento, governo ecc.) vi sono altri elementi e momenti. L’obiettivo, in una società complessa come la nostra, che non accetta più un uomo solo al comando, è un governo di leggi e di uomini imperniato su pesi e contrappesi (“checks and balances”), capaci di impedire degenerazioni pericolose. C’è in particolare un limite che nessuna maggioranza potrà mai correttamente valicare: intaccare il principio di legalità, in base a cui le leggi debbono valere per tutti. Principio che non ammette eccezioni, nemmeno basate sul consenso per quanto ampio possa essere. Principio che vale per tutti gli operatori istituzionali, politici, economici e sociali. Viceversa, questo è oggi il problema del nostro paese. La pretesa di qualcuno di sottrarsi al principio di legalità.

Così come scolpita nella Costituzione repubblicana, la sovranità del popolo differenzia il nostro da altri sistemi o epoche in cui fonte della sovranità erano la divinità, la “nazione”, il re o magari l’uomo della provvidenza, non i cittadini. Con la Costituzione lo Stato perde (si spera definitivamente) la maestà del “Leviatano” di Hobbes, irresistibile e unico titolare della forza, e diventa la promessa – ancora debole, e tuttavia esistente – di una società di uguali. E non è un caso che la nostra Costituzione – a differenza dello Statuto albertino – si apra con l’affermazione dei principi fondamentali e dei diritti dei cittadini, affiancati ai doveri inderogabili di solidarietà, e non con le disposizioni sull’organizzazione dello Stato. Cambiare la prima parte della Costituzione significa dunque cambiare la qualità della nostra democrazia. E le riforme della seconda parte nel senso voluto dall’attuale maggioranza politica (a partire, ben inteso, dalla bozza Violante…) saranno più facili. Il ministro Brunetta, con le sue esternazioni, aiuta ad inquadrare meglio i problemi che sono davvero sul tappeto. In un certo senso, va ringraziato.

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