lunedì 7 dicembre 2009

La prima sconfitta di Bersani

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 8 dicembre 2009

di Luca Telese
(Giornalista)


Criticato da Ezio Mauro: “Il Pd doveva andare”. Sbeffeggiato con toni vernacolari, dal monologhista Ulderico Pesce: “Ma dove cazzo è Bersani?”. Strapazzato da Matteo Renzi: “Il Pd è come la Fiorentina, non corre per lo scudetto. Perché Bersani non prende tre o quattro grandi temi e prova a coinvolgere il popolo viola?”. Irriso dagli avversari come Vittorio Feltri, tirato per la manica dai moderati che lasciano il Pd, criticato da sinistra da Di Pietro, Fava e Ferrero, stigmatizzato in casa propria da Walter Veltroni (e persino da Giovanna Melandri!), censurato finanche da Piero Fassino, uno che aveva buon gioco a dire: “Io alla manifestazione di Moretti ci andai”.

Il ma-anche e il ma-neanche.

Insomma, una giornata nera per Pier Luigi Bersani e il suo gruppo dirigente di “giovani sperimentati”. Il day after del 5 dicembre, segna la prima vera clamorosa sconfitta della nuova leadership del Pd. Se non ci fosse stato il tentativo di salvataggio in corner affidato a Rosy Bindi (che dopo aver spiegato in decine di interviste perché non andava alla fine – avendo fiuto – ha sfilato) il principale partito di opposizione sarebbe stato totalmente escluso dal principale evento di opposizione degli ultimi 10 anni. Un paradosso. E’ vero che in piazza c’erano i veltroniani, come Walter Verini, che c’erano Ignazio Marino, Ivan Scalfarotto e Rosa Calipari. Ma non c’è dubbio che la nuova linea del ma-neanche (“Non aderiamo, ma singoli dirigenti e militanti ci saranno”), di fronte a un successo di misura epocale mostra tutti i suoi limiti (e fa rimpiangere persino il ma-anche veltroniano). Un sondaggista come Luca Ricolfi – ieri su La Stampa – spiegava che il grado di soddisfazione degli elettori del Pd precipita ai minimi storici. E il segretario ospite di Lucia Annunziata non appariva molto convincente quando provava a spiegare che era stata “una bella giornata”, ma che la linea era giusta: “Si doveva mettersi in coda o imbucarsi? Dovevamo metterci il cappello e aderire a tutto quel che viene detto, o mandare delegazione come in Cecoslovacchia negli anni Cinquanta? Io dico di no”.

Il problema centrista. I guai di Bersani, però, non sono circoscritti alla cosiddetta “piazza”. L’offensiva di “dialogo” con il centrodestra inaugurata dalle aperture di Enrico Letta e Luciano Violante è finita in un vicolo cieco (dopo aver suscitato dissensi importanti nel Pd). La tenuta del Pd non pare saldissima, visto che dopo l’addìo di Francesco Rutelli si è celebrato anche quello della teodem Dorina Bianchi: “Il segretario non mi ha risposto al telefono”, ha riferito lei, consolidando una immagine di immobilismo e passività. L’emorragia (che potrebbe vedere coinvolti anche dirigenti come Enzo Carra e Renzo Lusetti) non è verso la formazione transfuga di Rutelli, ma nei confronti dell’Udc di Pier Ferdinando Casini. Ed è ancora una volta l’Udc a dettare l’agenda di Bersani (invece che il contrario). Nelle Marche sigla un accordo; in Piemonte mette in discussione Mercedes Bresso (respinta sul territorio, ma non a Roma); nel Lazio aspetta per decidere; in Calabria si tira fuori condannando Loiero a una corsa in salita; in Puglia fa la guerra a Nichi Vendola. Tutto legittimo: senonché, la trattativa con i centristi non avviene alla luce del sole, ma emerge solo carsicamente sui tavoli periferici. E in tutte queste beghe, Bersani appare sempre assente. A San Giovanni delega la Bindi; in Puglia delega a Massimo D’Alema (che finge di essere lì per caso) e invece tratta. Nel Lazio, dopo la bomba atomica delle dimissioni di Marrazzo , Bersani non è riuscito ancora a dire una parola sul trans-gate, né a designare un nuovo candidato. In nessuno di questi casi il segretario ha proposto soluzioni. Sul piano della visibilità la Bindi è molto più presente e riconoscibile dell’ex ministro dello Sviluppo economico. Lei che risponde alle accuse e alle ingiurie di Berlusconi (“Non sono una donna a sua disposizione”) e mette la faccia davanti alle proteste del popolo viola.

Tutti pensavano che Bersani avrebbe chiuso la fase di eclettismo estremo della leadership Veltroniana e Franceschiniana. E invece ha aggiunto alla contradditorietà (che resta) una incredibile sensazione di staticità. “Stiamo crescendo nei sondaggi”, assicurano (e si rassicurano) i bersaniani. “Pier Luigi sta studiando”, ripetono i collaboratori. Ma intanto nella rappresentazione mediatica tutte le dinamiche dialettiche finiscono per essere rappresentate nel centrodestra. Ieri, alla Comunità di Capodarco di Roma (un tempo considerato un covo catto-comunista) a sfidare Casini e Beppe Pisanu sull’immigrazione, era stato chiamato Fini. Sui grandi processi di delocalizzazione (ad esempio la Fiat a Termini) la risposta alle posizioni più liberiste sono le prese di posizione di Claudio Scajola. Il segretario non costruisce dibattito, e quando parla (come domenica) interviene di sponda. Non suona peregrino l’interrogativo di un dirigente come Marco Minniti: “Qui c’è il rischio che se alle regionali perdiamo 5 regioni su 11, ci ritroviamo come dopo le politiche”. E cioè? “Con un’altra anatra azzoppata”.

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